giovedì 28 marzo 2013

Mangiare in bianco

Per noi, oggi, l'espressione "mangiare in bianco" richiama l'idea di un vitto leggero ed un po' insipido per persone con problemi di stomaco, ma, nel Medioevo, il "Biancomangiare" era una preparazione che, con le sue varianti, era incentrata sull'uso di ingredienti di colore bianco, colore associato, nella nostra tradizione, all'idea di purezza, tant'è che "candore" è sinonimo di innocenza e semplicità.
Sembra  che il Biancomangiare, o blanche mangieri, o balmagier, fosse una preparazione di origine francese. Dalla Francia, però, la tradizione del "mangiar bianco" si allargò ad altri Paesi.
 All'inizio del XIV secolo,  fu pubblicato a Napoli, dove, non a caso, in quegli anni, dominavano gli Angiò, il "Liber de coquina", primo trattato di cucina in lingua volgare (nonostante il titolo in latino). In questo trattato, è possibile trovare una ricetta di Biancomangiare che ha, tra gli ingredienti, petto di pollo, riso, latte, zucchero e lardo. Ma, come ho già accennato, del Biancomangiare esistevano differenti versioni. Ad esempio, in Quaresima, venivano eliminati pollo e lardo e sostituiti con del pesce. 
Ricette via via più complesse, con l'aggiunta di ingredienti, quali acqua di rose, zenzero, agresto, si ritroveranno nei ricettari di Mastro Martino, Cristoforo da Messisbugo e Bartolomeo Scappi, autori che, con i loro testi, gettarono le basi della codificazione della cucina italiana.
Del Biancomangiare esistevano anche versioni dolci e son proprio queste che sono sopravvissute fino ai giorni nostri. Fondamentalmente, si tratta di una sorta di budino, variamente aromatizzato, preparato senza uova, in cui l'elemento addensante è rappresentato da un amido di varia natura. 
A seconda delle regioni, troviamo ricette che impiegano latte vaccino o di capra  ed altre che, invece,  utilizzano latte di mandorla. La versione senza mandorle la troviamo in regioni geograficamente lontane: il Blanc Manger in Val d'Aosta ed il Biancomangiare in Campania ( riportato ne "La Cucina Napoletana" di Jeanne Carola Francesconi). A Cagliari e nel Campidanese, ritroviamo il "Pappai biancu", mentre ad Alghero si prepara un Menjar blanc, che differisce da tutte le altre preparazioni simili per il fatto che la crema di amido e latte, profumata al limone, è contenuta in un guscio di pasta fatta con farina e strutto (pasta violada). 
In Sicilia, invece, nel ragusano, si è affermata la versione con le mandorle, frutto importato sull'isola dagli Arabi. E gli Arabi, con la loro lunga occupazione della penisola iberica, sono, con ogni probabilità, il trait d'union tra il Biancomangiare di Modica e quello catalano. Due ricette sostanzialmente simili su due sponde contrapposte di quel Mediterraneo, fucina e crogiolo di culture, anche gastronomiche.

Menjar Blanc



Ingredienti per 4 persone: 200 g di mandorle crude pelate 1 l di acqua 75 g di fecola di mais 1 stecca di cannella La buccia di un limone 200 g di zucchero
Preparazione
Mettere l’acqua sul fuoco e quando inizia a bollire spegnere il fuoco e mettere nell’acqua la pelle di limone e la cannella. Mettere il coperchio e lasciare in infusione per 5 minuti e scolare. Mettere le mandorle nell’acqua profumata, tritare e lasciare la miscela coperta in infusione per 4 ore. Colare con un panno, pressando bene per estrarre tutto il sapore delle mandorle. Mescolare il liquido rimanente poco a poco con lo zucchero e la fecola di mais, in modo che non si formino dei grumi. Mettere sul fuoco e mescolare fino a quando non inizia a bollire. Versare negli stampi, lasciar raffreddare e servire freddo.

Considerazioni sulla ricetta. Dovendola rifare, credo che cambierei alcune cose: aggiungerei un po' più di zucchero e l'infusione di mandorle la farei nel latte, anziché in acqua. Questo perché, benché il gusto di mandorla si senta, il sapore complessivo è un po' "fiacco". Anche per questo, non ho resistito alla tentazione di "sporcare" un po' tutto quel candore con un coulis, preparato con 125 g di more frullate e setacciate ed un cucchiaio di zucchero, il tutto messo sul fuoco,  giusto il tempo di sciogliere lo zucchero e fare addensare un po' la salsa.

O di giocare un po' con i gusti complementari alle mandorle, creando una piccola scacchiera di monoporzioni con coulis di more, marmellata d'arance, amarene sciroppate e sciroppo di fichi. Tutto rigorosamente "home made".

domenica 24 marzo 2013

Ma è ovvio!

Leggendo la ricetta della fideuà, mi è venuto in mente che, da un po' di tempo, è venuta "di moda" la cottura risottata della pasta, ma, come ci racconta Mai nel suo post, questo tipo di cottura, in Catalogna, è di tradizione. Ma non solo in Catalogna, anche dalle mie parti. Si, perché una serie di preparazioni che, altrove, rientrano nella categoria zuppe/minestre, a Napoli sono, invece, piatti piuttosto asciutti. E l'unico modo per garantirsi che pasta e fagioli, pasta e cavolo, pasta e zucca, pasta e patate ecc., a fine cottura, non risultino brodose (mai sia!) consiste nell'aggiungere acqua o brodo poco alla volta, man mano che la pasta se l'assorbe. Questa riflessione ha portato ad un dialogo interno vagamente schizofrenico... "Ma no, dai, mica vorrai fare pasta e patate per l'MTC??" "E perché no? Le regole vengono perfettamente rispettate e, inoltre, sono o non sono quella affascinata dalle contaminazioni cultural/gastronomiche? E quanti secoli di dominazione spagnola abbiamo avuto qui? Magari quel modo di cuocere la pasta l'hanno imparato da noi". "Vabbè, però, visto che nell'orto son spuntati i primi piselli, usane un po' per dare colore al piatto".

Fideuà strapartenopea

Spaghetti                     120 g
Patate                         150 g
Piselli                         100 g
Pancetta                      30 g
Brodo vegetale            1/2 l
Cipolla trita                 1 cucchiaio
Olio evo                      1 cucchiaio

In una larga padella, rosolare la cipolla con la pancetta; aggiungere le patate e i piselli e portarli a mezza cottura, bagnando, di tanto in tanto, con un po' di brodo vegetale, fatto con sedano, carota, cipolla. Mettere in padella gli spaghetti spezzati e farli tostare. Appena accennano ad imbiondire, aggiungere un mestolo di brodo caldo. Proseguire la cottura, aggiungendo altro brodo, appena la pasta avrà assorbito quello aggiunto in precedenza. Quando la pasta sarà asciutta e ben al dente, impiattare, accompagnando con la salsa.

Salsa Mornay

Farina                15 g
Burro                 15 g
Latte                  120 g
Parmigiano         1 cucchiaio
Sale
Pepe nero

Preparare un roux col burro e la farina e farlo sciogliere in un pentolino e aggiungere il latte caldo, come si fa per preparare una bechamel. Salare, aggiungere il Parmigiano ed una macinata di pepe.
(So che esistono altre versioni della salsa Mornay: con l'Emmental, col tuorlo ecc., ma questa è la versione del Talismano della felicità e, per me, Ada Boni è Cassazione).







mercoledì 20 marzo 2013

Un po' di chimica

La lecitina fu isolata, per la prima volta, nel tuorlo d'uovo: da qui il nome, giacché "lecite" è sinonimo di tuorlo. In realtà, le lecitine sono un gruppo di sostanze presenti naturalmente in molti tessuti, sia animali che vegetali. Si tratta di molecole abbastanza complesse, caratterizzate dal fatto di avere un'estremità capace di legarsi all'acqua e a tutte le molecole idrofile, mentre l'altra estremità si lega ai grassi. Grazie a questa peculiarità, le lecitine sono capaci di costruire dei "ponti" tra molecole di grasso e molecole idrofile. In pratica, sono degli stabilizzanti delle emulsioni (chi volesse approfondire l'argomento troverà spiegazioni più esaurienti sul prezioso blog di Dario Bressanini). E le emulsioni, che si tratti di una semplice vinaigrette o di una maionese, giocano un ruolo importante in cucina. E' proprio la lecitina contenuta nel tuorlo che rende possibile realizzare una maionese che rimanga stabile nel tempo. Ma se, come dicevo prima, le lecitine sono contenute anche in altri tessuti animali e vegetali, allora sarà possibile creare delle "maionesi" senza tuorlo. Col diffondersi della dieta vegana, ad esempio, è diventata abbastanza conosciuta una maionese fatta, anzichè  con l'uovo, col latte di soia.
Quando ho partecipato al programma del Gambero Rosso, mi sono stupita vedendo Igles Corelli realizzare una "maionese" di calamari. In realtà non è così strano come potrebbe apparire a prima vista. Il principio è lo stesso della maionese tradizionale: creare un emulsione tra le proteine idrofile ( in questo caso del calamaro, anziché del tuorlo) e l'olio, con le lecitine naturalmente contenute nei tessuti del mollusco che fanno da stabilizzante. 
Lunedì scorso, mi è improvvisamente tornata alla mente questa cosa ed ho subito pensato che quella particolarissima "maionese" avrebbe potuto essere un accompagnamento perfetto per una fideuà. Ma era lunedì e le pescherie, di lunedì, son chiuse...Aspettare il giorno dopo? Naaaaaaaaa! Mi ero messa questa cosa in testa e non potevo aspettare. Fortunatamente, frugando un po' nel mio congelatore ho ritrovato dei calamari che ricordavo di aver conservato. Detto fatto, mi son messa all'opera.

Fideuà con maionese di calamaro ( x 1)

Spaghettini                         120 g
Pomodorini del piennolo    8
Calamari                             150 g
Olive di Gaeta                    8
Capperi                               1 cucchiaino
Olio evo                              2 cucchiai
Aglio                                   1 spicchio
Brodo vegetale
Sale

In una pentola ho messo sedano, carota e cipolla ed ho preparato un brodo vegetale. Ho scaldato l'olio in una larga padella ed ho tostato gli spaghettini spezzati. Li ho sgocciolati dall'olio e li ho messi da parte. Ho messo in padella l'aglio e, quando ha iniziato ad imbiondirsi, ho aggiunto i pomodorini privati dei semi, le olive denocciolare e d i capperi dissalati. Una volta pronto il sughetto, ho rimesso in padella gli spaghettini ed ho proceduto a cuocerli, bagnandoli , di tanto in tanto, con un mestolo di brodo caldo, come si fa per il risotto. Un paio di minuti prima della fine della cottura degli spaghetti, ho aggiunto i calamari tagliati ad anelli.Ho impiattato e servito con l'accompagnamento della maionese.

Per la maionese di calamaro

I tentacoli crudi dei calamari usati per la fideuà
1/2 spicchio d'aglio
Olio evo             quanto ne prende
Sale

Nel bicchiere del minipimer ho messo i tentacoli e l'aglio ed ho frullato il tutto. A questo punto, ho iniziato ad aggiungere, goccia a goccia, l'olio, sempre continuando a frullare, esattamente come si fa per una comune maionese. Mi sono fermata quando il tutto mi parso ben emulsionato e  montato. Avendo aggiunto l'olio col contagocce, non so quantificare con esattezza quanto ne ho impiegato, ma non credo più di un cucchiaio, visto che non si trattava di un grosso quantitativo di tentacoli. Ho dimenticato di spellare i tentacoli e questo è il motivo per cui la salsa ha quella colorazione tendente al viola, ma non credo che la cosa abbia influenzato il sapore. Sapore che era intenso e gradevolissimo ed anche il mio unico commensale ha apprezzato.





lunedì 18 marzo 2013

Home made

Se guardo indietro a come è cambiato, negli anni, il mio modo di cucinare, ciò che salta all'occhio è un'attenzione sempre più marcata verso la qualità dei prodotti e la conseguente tendenza ad applicare ad un numero crescente di preparazioni il concetto di "fatto in casa". In principio, inevitabilmente, furono marmellate e conserve,  poi venne il pane, poi i biscotti, poi il dado da brodo, le paste ripiene ecc. ecc. Insomma, non solo a casa mia non è mai entrato un sugo pronto (e meno male, direi, visto quello che è saltato fuori nelle ultime settimane!), una pizza surgelata, un purè in busta o una confezione di Quattro Salti in Padella, ma anche cose che prima acquistavo abbastanza serenamente, come biscotti o pan carré, sono stati sostituiti via via dalla mia produzione casalinga.
Ovviamente, sono sempre stata molto attratta dalla possibilità di fare il formaggio in casa e, difatti, ho sempre in frigo del caglio, col quale, ogni volta che mi trovo con del latte e/o panna in scadenza, faccio delle caciottine, variamente aromatizzate: al pepe, alla rucola, al limone. Sia chiaro: in Italia abbiamo formaggi eccellenti, fatti con tutti i crismi, ma la mia diffidenza va a quei formaggi industriali, che, più che richiamare l'immagine di mucche che pascolano felici su verdi prati, fanno pensare ad additivi, addensanti ed emulsionanti non proprio naturali. Tra tutti, uno in particolare: quel formaggio cremoso, che porta il nome di una città americana e che si usa, ad esempio, per fare la cheese cake. Ecco, quel formaggio lì mi sa di "finto" e, da quando sono diventata una consumatrice più consapevole, proprio non mi riesce di usarlo. Grande, quindi, è stata la mia gioia, quando ho scoperto che era possibile prepararselo in casa!  Ho provato subito a farlo ed il risultato è stato strepitoso, una vera svolta. E, poi, chissà in quante ricette avrete trovato come ingrediente il "latticello" o "buttermilk": ecco, preparando questo formaggio cremoso, vi ritroverete anche come prezioso "sottoprodotto" il latticello.
La ricetta l' ho trovata qui e la riporto integralmente, con infiniti ringraziamenti all'autrice.



Ingredienti

1 litro di latte intero
1.4 litri di panna fresca (con almeno il 35% di grassi)
600 ml di kefir (yogurt, oppure latticello)
15 ml di succo di limone (1 cucchiaio)
5 ml di caglio * (1 cucchiaino)

Procedimento

1. Unire il latte e la panna in un’ampia pentola d’acciaio.
2. Cuocere a fuoco medio fino a che la mistura abbia raggiunto 21°C. Non lasciare che il latte arrivi ad ebollizione. Spegnere il fuoco.
3. Aggiungere il kefir, il succo di limone, il caglio e mescolare.
4. Coprire la pentola e lasciar riposare a temperature ambiente per tutta la notte.
5. Il mattino successivo (comunque dopo almeno 8 ore) la cagliata dovrebbe essere pronta.
6. Foderare una colapasta con un telo di garza per formaggi bagnato e ben strizzato e porlo su una pentola che possa raccogliere il siero che colera’.
7. Mescolare velocemente con una grossa frusta ( per rompere la cagliata)
8. Versare il composto nella colapasta preparata e lasciar colare il siero per un’ora circa.
9. Passato quel tempo, sollevare I lembi della tela di garza per formare una specie di sacchetto.
10. Annodare la stoffa per chiudere il sacchetto, poi lasciar passare uno stecco di legno nel nodo e poggiare lo stecco sui bordi della pentola, in modo che il sacchetto possa rimanere appeso nella pentola stessa. Coprire e mettere in frigo per una notte.
11. Trascorsa la notte il formaggio avrà perso tutto il liquido in eccesso e potrà essere usato subito o conservato in frigo in un barattolo a chiusura ermetica o avvolto nella pellicola per alimenti.


giovedì 14 marzo 2013

Zood blog ( e la gelatina di Dolcetto)

Càpita che io legga un articolo su un giornale che, normalmente, non rientra tra le mie letture. Càpita che, in quell'articolo, si definisca il Darwinismo "una superstizione ottocentesca" e lo si accusi, per il fatto di sostenere la discendenza dell'uomo dalla scimmia, di indurre le giovani generazioni, qualora vengano esposte a tale nefanda teoria, a comportarsi come scimmie. Càpita che, in questi stessi giorni, io mi trovi a trattare, a lezione, proprio la teoria dell'evoluzione. Càpita che la concomitanza di questi eventi riesca a scuotermi brutalmente da un certo torpore che, facendo da tanti anni questo mestiere, si è forse insinuato nel mio modo di insegnare. Sveglia!! Cosa credevo? Che a negare l'evoluzione fosse solo qualche gruppetto di fondamentalisti religiosi sperduti nella "Bible belt" americana, fedeli all'interpretazione letterale della Genesi?  E no, eccolo lì, papale papale, sulle pagine di un quotidiano a diffusione nazionale, l'oscurantismo acritico. Si, acritico, perché le affermazioni che ho citato prima non erano minimamente argomentate. E' vero che l'oggetto dell'articolo era altro - il rogo della Città della Scienza - ma non mi sta bene che un giornalista qualunque (e, mi sento di scommettere, NON un giornalista con una preparazione scientifica...) possa buttare in faccia ad uno sprovveduto lettore frasi ad effetto, come quella sui giovani indotti a comportarsi come scimmie senza che sia tenuto a darne conto. Anche perché, onestamente, ho sempre creduto che   un certo tipo di programmi televisivi pesasse molto di più nell' indurre le persone - giovani e non - a comportarsi da subumani, piuttosto che la parentela più o meno stretta con gli altri Primati.
Sia chiaro che io non intendo cadere a mia volta nel  dogmatismo, sia pure di segno opposto: per me la teoria dell'evoluzione è una interpretazione della storia della vita valida fintantoché  qualcuno non proporrà una teoria diversa, purché  lo faccia con ragionamenti validi e con prove a sostegno delle sue affermazioni. Ma se le critiche si basano solo su affermazioni tautologiche (è così perché è così) o sul dettato biblico, mi spiace, ma non posso che rifiutarle con forza.
Detto ciò, torniamo al "core business" di questo blog, e cioè il cibo e mi scuso se, ogni tanto, il mio food blog diventa uno "zood blog", ma dentro di me,  si agitano due anime: la cuoca e la zoologa e, ogni tanto, la seconda ha il sopravvento.
Anche stavolta, si tratta di una ricetta realizzata per partecipare ad un contest, quello di Emanuela di Arricciaspiccia. Ho partecipato volentieri, non solo perché ho conosciuto personalmente Emanuela e l'ho trovata una ragazza deliziosa, ma anche perché adoro l'accostamento dolce/salato. Ho immediatamente pensato alla cucina orientale, dove questo abbinamento è molto diffuso ed ho realizzato dei simil-spring rolls, impiegando la carne di maiale, anzichè le verdure. Avevo intenzione, come omaggio a Emanuela, di fare una ricetta gluten-free, ma poi, leggendo attentamente le etichette, come mi hanno insegnato le mie amiche sglutinate, ho scoperto che la salsa di soia che avevo in casa conteneva glutine, però, sempre le suddette amiche, mi hanno detto che esiste una salsa di soia senza glutine, per cui questa ricetta può facilmente diventare lecita per celiaci ed intolleranti.

Fake Spring Rolls

Straccetti di arista di maiale                         300 g
Salsa di soia                                                2 cucchiai
Porro 
Zenzero fresco                                            2 cm
Gelatina di Dolcetto AziendaImprunotto    2 cucchiai
Olio evo
Sfoglie per spring rolls

Marinare le striscioline di maiale nella soia e nello zenzero tritato per almeno due ore. Tagliare il porro a rondelle e rosolarlo in un cucchiaio d'olio, badando che resti un po' croccante. Nella stessa padella (o wok), stemperare la gelatina di Dolcetto e saltare velocemente le striscioline di carne, bagnandole con un po' della marinata. Non salare, perché la salsa di soia è già salata di suo. Inumidire le sfoglie di riso tra due  strofinacci bagnati e strizzati. Sgocciolare la carne dal sughetto e metterne un po' su una sfoglia, arrotolandola, come mostrato qui. Io ci avrei visto bene, insieme alla carne, una julienne di carote e verde di zucchina, ma, poi, mio marito non li avrebbe mangiati e, quindi,l'ho usata per decorare il piatto. Friggere gli involtini in olio caldo.





mercoledì 13 marzo 2013

La pigrizia

Non so gli altri mariti, ma il mio, a tavola, è pigro: ad esempio, quasi mai mangia la frutta per non doverla sbucciare, ma la macedonia la mangia volentieri. Stesso discorso vale per il pesce: preferisce molluschi, crostacei o pesci a trancio, perché l'idea di doversi mettere a battagliare con le spine gli fa passare la voglia di mangiarlo. Figuriamoci, quindi, una zuppa di pesce, dove abbondano pesci particolarmente ricchi di spine!
Tanti anni fa, durante una vacanza a Pantelleria, conoscemmo dei ragazzi livornesi, che ci invitarono a casa loro a mangiare il caciucco. Io immaginai che mio marito sarebbe rimasto digiuno per i motivi suddetti, ma, arrivati lì, scoprimmo che la zuppa era stata preparata passando accuratamente al passaverdure i pesci propriamente detti e lasciando intatti crostacei e molluschi. Ora io non so se questa sia la vera preparazione del caciucco (anzi, da quel che ho visto, controllando un po' di testi, direi proprio di no),  ma, allora, la presi per buona, anche perché mi sembrava una facile soluzione ai problemi di mio marito coi pesci spinosi. Di fatto, la zuppa di pesce  è un piatto che non preparo quasi mai, ma quella particolare versione del caciucco mi è tornata alla mente al momento di pensare a come realizzare una ricetta per l'MTC di questo mese che fosse gradita all'unico consumatore della stessa, cioè il consorte.


Fideuà pseudo-livornese



Spaghettini                            120 g.

Pesce da zuppa                      500 g
Gamberoni                            6
Aglio                                     1 spicchio
Olio evo
Pomodorini del piennolo       8
Brodo di pesce

In una larga padella, rosolare lo spicchio d'aglio in un cucchiaio d'olio e aggiungervi gli spaghettini spezzati, facendoli tostare velocemente;


 levarli dalla padella, sgocciolandoli dall'olio. Versare nella padella un altro po' d'olio e metterci  i pomodorini privati dei semi; i semi li ho messi in un colino e, schiacciandoli un po' con un cucchiaino, ne ho ricavato un'acqua di pomodoro che è finita anch'essa in padella; dopo qualche minuto, quando i pomodorini saranno un po' appassiti,



 aggiungere il pesce desquamato ed eviscerato (nel mio caso: una piccola rana pescatrice, uno scorfanetto, una perchia e una gallinella)



 e cuocerlo, bagnandolo, di tanto in tanto con un mestolo di brodo di pesce. Il brodo di pesce lo avevo già in freezer, ma era stato preparato esattamente come descritto qui. Quando il pesce è cotto, spolparlo accuratamente e passare la polpa al passaverdure, insieme ai pomodorini. In realtà, con questi quantitativi, ho ottenuto una quantità di passato superiore alle mie necessità del momento, per cui una metà l'ho congelata per usi futuri.  Sgusciare i gamberoni,  saltarli velocemente  nel fondo di cottura rimasto nella padella e tenerli in caldo, insieme al passato di pesce, ponendo la terrina che li conteneva su una pentola in ebollizione.

Mettere nella padella il passato di pesce e, quando si è riscaldato,  aggiungere nuovamente gli spaghettini e procedere alla cottura risottata, bagnando, cioè, di tanto in tanto la pasta con brodo di pesce caldo, fino ad arrivare ad una cottura ben al dente.  Impiattare e decorare con i gamberoni.


Per la salsa, l'alioli catalana di Mai mi ha fatto subito pensare alla aioli provenzale e, da lì, pensare alla rouille, la classica salsa di accompagnamento della bouillabaisse, la famosa zuppa di pesce marsigliese, è stato inevitabile. In realtà, le somiglianze sono tantissime e la cosa non stupisce, visto l'affratellamento culturale che lega i popoli che si affacciano sul Mediterraneo e che è tanto più evidente quando si mettano a confronto le varie tradizioni gastronomiche.

Secondo "La cuisine provencale et nicoise"  di  Mireille Roubaud, la salsa aioli prevede solo aglio, tuorlo ed olio d'oliva, mentre, nella rouille, si aggiungono pepe nero e zafferano.


Salsa Rouille



Aglio                         1 spicchio

Tuorlo                       1
Olio evo                    1/2 bicchiere
Pepe nero
Zafferano
Sale


Io l'ho fatta col minipimer, frullando lo spicchio d'aglio col tuorlo e aggiungendo l'olio a filo. Verso la fine, ho aggiunto il sale,lo zafferano ed una macinata di pepe.


Con questa ricetta partecipo all'MTC di marzo 2013



venerdì 8 marzo 2013

Zefiro

"Se penso ad una tipica famiglia borghese napoletana, mi viene da pensare alla famiglia Scaturchio. Eppure, in origine, nessuno, in quella famiglia era napoletano. Non era napoletano Giovanni, il capostipite, che dalla Calabria, si era spostato a Napoli, per seguire i fratelli che già lavoravano qui come pasticceri. Non era napoletana, ma austriaca, sua moglie, conosciuta al fronte, durante la Prima Guerra Mondiale.
E non era napoletana nemmeno un'altra fondamentale figura di quella famiglia: la tata friulana Carolina, arrivata a lavorare ancora ragazza in quella casa, diventandone, letteralmente, l'angelo del focolare. Perché in una casa dove c'era chi si alzava alle 5 per aprire il laboratorio, chi scendeva alle 7 per alzare la saracinesca del negozio, chi pranzava al volo a mezzogiorno e così via, fino a sera, in un continuo avvicendarsi di turni,  la tata era la Vestale che teneva sempre il fuoco acceso, per servire colazioni, pranzi e cene a tutte le ore. Oltre alle prime preparazioni salate che,ad un certo punto, andarono ad affiancarsi alla produzione dolciaria. E in quella casa Carolina  sarebbe rimasta fino alla vecchiaia e alla morte, in un (oggi impensabile) rovesciamento di ruoli fra chi accudiva e chi era accudito. Finita la guerra, Giovanni si mise in proprio, aprendo la storica pasticceria in Piazza San Domenico Maggiore, affermandosi sempre di più come parte integrante della vita pubblica e privata di questa città. Perché tanti eventi pubblici, come l'incontro tra Hitler e Mussolini oppure il G8 hanno vista coinvolta la pasticceria di San Domenico Maggiore, talvolta addirittura con la creazione di dolci ideati per l'occasione, come lo zefiro, di cui parliamo oggi, o il gigantesco Babà Vesuvio. Di pari passo, tante famiglie hanno visto la loro vita scandita da battesimi, comunioni, cresime, feste di laurea, matrimoni, tutte occasioni accompagnate dal catering firmato Scaturchio."
Questo avrebbe dovuto essere il nucleo centrale di un libro che avevo pensato di scrivere sulla storia della Pasticceria Scaturchio e, in vista del quale, ero anche andata a raccogliere, pochi mesi prima della sua scomparsa, la testimonianza della figlia maggiore del fondatore, la signora Ivanka, che mi ha raccontato come, da ragazzina, uscita da scuola, le piacesse correre in negozio a dare una mano, anche se le toccava mettersi in piedi su uno sgabello per riuscire ad arrivare a porgere i pacchetti ai clienti. Alla fine, non ne ho fatto più nulla, perché non mi sono sentita all'altezza del compito e un po' me ne dispiace, perché è un pezzo di storia di questa città, che avrebbe meritato di essere raccontato. Più che mai adesso che la pasticceria è passata di mano. Non saprei dire se gli Zefiri, i Danubi, i Ministeriali, i Babà e le Sfogliatelle siano rimasti gli stessi perché io non ci sono più entrata. E non solo perché non lavoro più da quelle parti, ma, soprattutto, perché senza il dolce sorriso della signora Ivanka ad accogliermi dietro la cassa non sarebbe comunque la stessa cosa.
E, allora, ho provato a farmelo da sola lo Zefiro all'arancia. Come accennavo più su, questo dolce fu creato per la cena dell'incontro tra Hitler e Mussolini, a Napoli, nel 1938, unica cosa buona che venne fuori da quel funesto meeting. Perché lo Zefiro, come suggerisce il nome, è un soffio leggero e profumato d'incredibile bontà. Sono andata un po' a tentoni, ricostruendo il dolce "a memoria", ma sono molto soddisfatta del risultato. 

Pan di Spagna

Uova                  3
Farina 00           90 g
Zucchero           90 g.
Buccia di limone

Montare le uova intere con lo zucchero per almeno 15 minuti. Aggiungere, delicatamente, mescolando dal basso verso l'alto, la farina setacciata e la buccia di limone grattugiata. Versare in uno stampo rettangolare imburrato ed infarinato ed infornare a 180 gradi, per 30-40 minuti (dipende dal forno). Meglio prepararlo con un paio di giorni d'anticipo, in modo che sarà più facile tagliarlo.

Mousse all'arancia

Panna               150 ml
Albume             1
Zucchero           60 g
Destrosio           20 g
Succo d'arancia  1 cucchiaio

Il giorno prima, scaldare 50 ml di panna e aggiungervi la buccia grattugiata di un'arancia. Lasciare in infusione in frigo fino al giorno dopo.
Preparare una meringa italiana, montando l'albume a neve e aggiungendovi a filo un sciroppo preparato con lo zucchero, il destrosio ed il succo d'arancia e portato alla temperatura di 121 gradi. Continuare a montare fino a che la meringa si è raffreddata e metterla in frigo. Filtrare la panna, in modo da eliminare la buccia d'arancia, aggiungervi la panna restante e semimontarla. Aggiungere delicatamente alla panna la meringa, in modo da amalgamare completamente i due composti.
Imburrare due stampi a tronco di cono, del diametro di 12 cm e rivestirli col pan di spagna. Per le basi dello stampo, ho adottato il metodo di Montersino, che consiste nell'affiancare le fette di pds e tagliare con un coppapasta i dischi della misura voluta. Inzuppare il pds con uno sciroppo fatto con 50 ml di succo d'arancia e 50 g di zucchero, al quale, una volta freddo, andranno aggiunti 50 ml di Cointreau.
Versare la mousse negli stampi e coprire col secondo disco, che andrà anch'esso inzuppato con la bagna. Mettere in freezer, per almeno 6-8 ore.
Al momento di servire il dolce, versare su ogni fetta una salsina preparata con 3 cucchiai di gelatina di arance, stemperata a caldo con un cucchiaio di Cointreau



Inzuppare il pds con uno sciroppo fatto con 50 ml di succo d'arancia e 50 g di zucchero, al quale, una volta freddo, andranno aggiunti 50 ml di Cointreau.
Versare la mousse negli stampi e coprire col secondo disco, che andrà anch'esso inzuppato con la bagna. Mettere in freezer, per almeno 6-8 ore.







Al momento di servire il dolce, versare sul dolce una salsina preparata con 3 cucchiai di gelatina di arance, stemperata a caldo con un cucchiaio di Cointreau

lunedì 4 marzo 2013

Quanto mi piacciono le frattaglie...


Mi piace partecipare ai contest, non perché mi aspetti di vincere, ma perché mi piace raccogliere la sfida e mi piace lo stimolo che ne deriva. Se, poi,  a "bandire" il contest è una cara amica come Sabrina, non posso assolutamente esimermi dal partecipare.
Del quinto quarto ho già parlato qui, riferendomi ad una preparazione napoletana tradizionale: la zuppa di soffritto. Questa volta, invece, avrei voluto cimentarmi con un ingrediente mai usato: le animelle. Ma, evidentemente, c'è un motivo se non mi è mai capitato di cucinarle: non le ho trovate da nessuna parte. Persino il mio fido macellaio, abituato alle richieste un po' strane che ogni tanto gli faccio, non è riuscito a procurarmele. E' finita che, in questa vana ricerca, ho perso un sacco di tempo e, arrivata in prossimità dello scadere dei termini per partecipare al contest ( ed oggi scopro che sono stati prorogati...), ho ripiegato sulla frattaglia più facile da reperire: il fegato di vitello. "Ripiegato" suona un po' male e non rende giustizia a questo paté, arricchito dalla nota acidula e fruttata dei lamponi, che è davvero molto buono.

Cannoli di paté ai lamponi

Fegato di vitello              200 g.
Cipolla                            1
Porto                               2 cucchiai
Panna fresca                   200 ml
Lamponi                         100 g
Olio evo                         1 cucchiaio
Pasta sfoglia                   250 g
Uovo                              1
Sale

Tritare la cipolla e farla appassire a fuoco lento nell'olio; sfumarla con un cucchiaio di Porto. Quando è quasi sfatta, aggiungere il fegato a tocchetti e cuocerlo rapidamente, senza prolungare troppo la cottura, altrimenti diventa coriaceo. Sfumare col restante Porto. Salare. Una volta cotto e fatto intiepidire il fegato, frullarlo insieme alle cipolle e ai lamponi. Semimontare la panna ed aggiungerla delicatamente al paté, in modo che si amalgami perfettamente.
Per quanto riguarda la pasta sfoglia, potete comprarla, oppure, farla da voi. In rete ci sono decine di ricette di pasta sfoglia, per cui non entrerò nel dettaglio della sua preparazione. Questo è il mio panetto, dopo il primo giro di pieghe, come testimoniato dall'impronta del mio dito, in basso a destra.




Tagliare la pasta sfoglia in strisce larghe 1,5 cm ed arrotolarle attorno agli appositi coni, sovrapponendo leggermente la pasta sfoglia ad ogni giro. Spennellare con l'uovo sbattuto ed infornare, finché diventano dorati. Aspettare che si freddino per staccarli delicatamente dai coni.  Mettere il paté in un sac à poche con bocchetta spizzata e riempire i cannoli.

Con questa ricetta partecipo al contest di Sabrina